domenica 21 maggio
La disfatta di Caporetto, il martedì nero del ‘29: parto con ambizioni da grande giornata caiana e ritorno con un pugno di mosche in mano, la spina dorsale compressa per il carico sopportato e le ginocchia che invocano pietà. Apparentemente una domenica da buttare eppure forse qualcosa di positivo riesco a cavarlo: solo il tempo (e il trapano del Tommy!) potrà darmi ragione.
Tutto nasce per l’ennesima pianificazione sbagliata. Alla fine dell’uscita del corso caiano di sabato con salita dell’Albertini, apro due o forse tre possibili fronti senza alla fine concretizzare nulla e rimanendo così a discutere con me stesso sui programmi per l’indomani. Saltano fuori idee folli da morte certa e alla fine, la meno peggio, mi sembra la Cassin alla Costanza: voglio chiudere i conti e sono convinto di farcela; già immagino il dopo salita, con la via in tasca e in attesa dell’incensamento della folla. Preparo lo zaino a puntino, un peso micidiale da trascinarsi dietro, eppure mi sembra di camminare leggero tanto che in un’oretta arrivo sotto la parete. Guardo in alto la spaventosa fenditura, una specie di piega sovrapposta della parete. Ma perchè diavolo mi vengono certe idee? Me la faccio sotto solo a stare a guardare l’orripilante anfratto finché lo stimolo è tale che alla fine devo andare veramente di corpo e poi parto. Il prato verticale con rocce affioranti non mi piace per nulla. In testa proiettano un film dell’orrore: mi vedo precipitare nel canale con la corda che fila senza arrestare la caduta. Ma devo proprio proseguire? Evidentemente si. Combatto contro i miei mostri e, tra l’altro, la lotta mi viene bene: salgo senza problemi ma il tarlo scava incessantemente e, per di più, il mio compagno se ne sta beatamente a guardare il panorama da sopra lo zaino! Ricordo dal precedente tentativo che prima della parete dovrebbe esserci un chiodo: punto a raggiungerlo, assicurarmi e poi vedrò il da farsi. In realtà il ferro è uno spit: ruggine ma certamente meglio di uno stupratore di fessure. Mi organizzo ma l’AlpTransit nella mia testa è completato: provo a salire ma l’inquietante domanda continua a martellare “e se dovessi cadere?”. Bella scoperta: se voglio fare il solitario, devo imparare a vivere con il rischio. Il convoglio con il tarlo passa: piazzo una delle maglie rapide trovata chissà dove e mi calo. Il mio socio, noncurante, continua a fissare il panorama. [continua]